(dalla raccolta CRONACHE DELL’ALTRO MONDO)
Paolo trangugia il fine serata in cucina. Lo sguardo annegato in una birra, l’unica birra che beve da tempo immemorabile.
E’ la stessa birra che accompagnava le sue serate con Daria, eppure le sue papille non recepiscono quello stesso sapore e né i suoi pensieri di oggi riescono ad evaporare. La testa resta ancorata, saldamente, alla bottiglia scura e niente ha più la soffice ebbrezza di quelle notti con lei.
Lo sguardo vaga, rastrellando ogni mollica di pane sul tavolo, misurando ogni piastrella, ripulendo ogni macchia d’unto sui fornelli e poi, scavalcando la porta del tinello, si inchioda su un punto del muro antistante.
Sembra che quel muro stia soffrendo tanto e vibra vittima del pianto di un bambino. Un’enorme crepa si apre sotto il martellare di quelle urla forti ed incessanti… una crepa sul muro e nella coscienza. Il cuore accelera i battiti e batte in testa un’idea di fuga, e i mille perché senza risposta pungolano la materia grigia.
Si risveglia una consapevolezza, quella di non essere l’anticonformista che voleva, di essersi calato in una parte di cui non conosce copione e che giorno dopo giorno deve recitare a braccio. Come può un attore, anche il più bravo o il più esperto, calcare il palcoscenico senza conoscere la parte?
Un ruolo ambiguo si è scelto in questo teatrino che è la vita, ma i costumi di scena vanno stretti a chi non ha mai accettato regole e dettami.
Come può uno spirito libero calarsi nella parte di un borghese piccolo piccolo, senza annegare nell’insofferenza al retaggio del convenzionale, del già deciso?
“Questo è un sequestro di persona” trasale.
La birra ha portato solo a termine una delle sue missioni e Paolo assecondando i postumi si alza, dirigendosi verso il bagno.
Il pianto del neonato, ora, si fa più lancinante e sembra premere sulla vescica dolente.
Si ricorda, in un istante di lucidità, che quel fagotto urlante è suo figlio, figlio del suo seme e, attraversando il corridoio, si gira verso l’ombra che, nel buio gremito di assordante pianto, allatta.
E’ un presepe vivente immobile nel bel mezzo della stanza… eppure lui non si sente San Giuseppe e nè riesce a cogliere la tridimensionalità di quell’evento. Si limita a guardare come se vedesse un poster, privo della sensazione di appartenere a quel tuttuno e se un brivido di amore verso il cucciolo lo attraversa, lo ricaccia indietro sospettando che un tale pensiero possa diventare un legaccio che lo blocca di più a quella “lei”, appollaiata su una minuscola seggiola, ingrassata e stanca, i capelli riordinati alla rinfusa e fermati sulla nuca.
Sosta obbligata davanti al water e poi torna alla birra e ai ricordi frizzanti abbandonati in cucina.
“Quante cose lasciate andare… strada facendo! Ma quale sarebbe stata quella giusta?”
Forse la birra bevuta a casa di Daria? Era la sua birra preferita, della stessa marca di quella che sta ingoiando ora come fosse una medicina scaduta. Era la sua birra doc… solo perché era lei a porgergliela; aveva un altro sapore… il sapore del corpo di Daria e della passione con cui condiva ogni gesto.
Ma in fondo, Daria, non era un corpo di donna come tanti? magari ben fatto, ma pur sempre una donna, una donna come tante, su cui soffermi lo sguardo camminando per la strada…
Aveva un odore quel corpo, che non aveva mai sentito prima, aveva il suo profumo d’autore che inebetiva l’olfatto. Aveva uno sguardo quel viso che non aveva mai incontrato prima. Aveva lo sguardo magnetico di una strega che strangolava il desiderio di distogliere il proprio sguardo. Aveva un sorriso quella bocca, che sembrava illuminare anche il tuo stesso sorriso. Aveva il sorriso di chi si porta un riflesso del sole d’agosto sempre a portata di mano, occultato nella borsa da mare.
Paolo sente che tutto questo è rimasto irrimediabilmente attaccato alla sua pelle. In un attimo il desiderio di una sensualità sepolta torna a galla, come sospinta da una forza malefica.
Ma quale sortilegio sta dannando l’anima?
Il libero arbitrio: con Daria era stato libero di andare e di tornare, mai in catene. Libero di far capricci da bambino e di improvvisarsi uomo navigato.
Libero di amarla e poi di odiarla. Libero di starle vicino e di tenerla a distanza. Libero di annegarla con le parole e di avvilupparla nei suoi silenzi.
Libero di rotolarsi con lei su un prato di fresche risate e di annaffiarla di lacrime di straordinarie prese di coscienza.
“Questa birra fa schifo… è troppo amara!” la guarda come guarderebbe al suo ultimo desiderio un condannato a morte.
‘Basta, basta… basta!’
Si accende una sigaretta, ma non è sufficiente per sentirsi libero in questa notte. Lancia uno sguardo al poster di un presepe mai realizzato e un attimo dopo è per strada. Fruga la notte, a cercare un indirizzo diverso tra crocicchi di convincimenti. Si ritrova in un frammento di tempo seduto sulla panchina del grande parco.
“Perché ho sequestrato alla Vita la mia stessa vita?”
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